Lo sporco gioco petrolifero di Chavez
Pagina 1 di 1
Lo sporco gioco petrolifero di Chavez
Lo sporco gioco petrolifero di Chavez
SOTTO TIRO ORA EXXON, NESTLÉ E PARMALAT Chavez alza la voce Ma il problema è altrove GIORGIO FERRARI I n altri tempi davanti alla rada di Maracaibo sarebbero già comparse le cannoniere. Ma fortunatamente la guerra che si combatte oggi è 'solo' a colpi di barili di petrolio, di nazionalizzazioni, di espropri e dispetti commerciali. Si può dire tuttavia che nel turbolento regno del venezuelano Hugo Chavez sono pochi i contenziosi non ancora accesi. È di ieri la notizia che Caracas minaccia di sospendere le forniture di petrolio agli Stati Uniti se perdurerà il congelamento di crediti per 12 miliardi di dollari della società petrolifera di Stato Pdvsa su istanza del gigante petrolifero Exxon, che nel maggio dello scorso anno si è visto nazionalizzare da Chavez alcuni campi nella Faja del Orinoco destinati all’estrazione del greggio. Non bastasse, il rude presidente venezuelano sta ingaggiando battaglia anche con due giganti del settore alimentare, la svizzera Nestlé e l’italiana Parmalat: l’accusa, sottrarrebbero latte prodotto in loco ai venezuelani per rivenderlo ai Paesi vicini. Anche in questo caso Chavez brandisce la minaccia della nazionalizzazione. L’esperienza insegna che quando un satrapo alza la voce, il problema sta regolarmente altrove. Il Venezuela infatti è aggredito da un’inflazione galoppante e da vistosi malfunzionamenti della macchina statale, con riflessi inevitabili sull’economia nazionale e seri problemi nella distribuzione dei generi di prima necessità. Se manca il latte a Caracas e nei villaggi dell’interno che costituiscono lo zoccolo duro dell’elettorato che ha portato Chavez al potere, la colpa non è delle multinazionali, ma degli accaparramenti, dei prezzi e delle tariffe che cambiano troppo velocemente, dell’insicurezza che avvolge da quasi un anno il Paese. E non è un caso che proprio quella base elettorale prevalentemente costituita da indios o da meticci abbia voltato le spalle al presidente in occasione del referendum che avrebbe dovuto garantirgli una sorta di presidenza a vita. C’è di più. Chavez, che finora ha adoperato il petrolio come strumento principe della propria politica di consenso all’interno del Paese ma anche come lubrificante diplomatico in politica estera (basti pensare alle forniture a prezzi simbolici da parte di Caracas che consentono a Cuba la sopravvivenza energetica), sa bene che tagliare le forniture di greggio agli Stati Uniti comporterebbe uno sbilancio nei conti dell’Opec, di cui il Venezuela è membro facoltoso. Ma sa anche – da buon calcolatore – che il margine di guadagno che il greggio venezuelano gli consente e la conseguente politica assistenziale che esso gli garantisce è possibile soltanto con il petrolio al di sopra dei 90 dollari al barile. Sotto questa soglia i ricavi del greggio venezuelano diventano esili. Per questo con teatrale regolarità tuona e minaccia; perché sa che il mercato è molto sensibile ai boatos: dopo l’invettiva di ieri nei confronti di Washington il greggio è risalito immediatamente a 93 dollari al barile al fixing di New York, prima di riassestarsi nel pomeriggio a quote più modeste. Modeste come la popolarità di Chavez, che va declinando di giorno in giorno. Basta misurare il tono delle sue urla per capirlo.
SOTTO TIRO ORA EXXON, NESTLÉ E PARMALAT Chavez alza la voce Ma il problema è altrove GIORGIO FERRARI I n altri tempi davanti alla rada di Maracaibo sarebbero già comparse le cannoniere. Ma fortunatamente la guerra che si combatte oggi è 'solo' a colpi di barili di petrolio, di nazionalizzazioni, di espropri e dispetti commerciali. Si può dire tuttavia che nel turbolento regno del venezuelano Hugo Chavez sono pochi i contenziosi non ancora accesi. È di ieri la notizia che Caracas minaccia di sospendere le forniture di petrolio agli Stati Uniti se perdurerà il congelamento di crediti per 12 miliardi di dollari della società petrolifera di Stato Pdvsa su istanza del gigante petrolifero Exxon, che nel maggio dello scorso anno si è visto nazionalizzare da Chavez alcuni campi nella Faja del Orinoco destinati all’estrazione del greggio. Non bastasse, il rude presidente venezuelano sta ingaggiando battaglia anche con due giganti del settore alimentare, la svizzera Nestlé e l’italiana Parmalat: l’accusa, sottrarrebbero latte prodotto in loco ai venezuelani per rivenderlo ai Paesi vicini. Anche in questo caso Chavez brandisce la minaccia della nazionalizzazione. L’esperienza insegna che quando un satrapo alza la voce, il problema sta regolarmente altrove. Il Venezuela infatti è aggredito da un’inflazione galoppante e da vistosi malfunzionamenti della macchina statale, con riflessi inevitabili sull’economia nazionale e seri problemi nella distribuzione dei generi di prima necessità. Se manca il latte a Caracas e nei villaggi dell’interno che costituiscono lo zoccolo duro dell’elettorato che ha portato Chavez al potere, la colpa non è delle multinazionali, ma degli accaparramenti, dei prezzi e delle tariffe che cambiano troppo velocemente, dell’insicurezza che avvolge da quasi un anno il Paese. E non è un caso che proprio quella base elettorale prevalentemente costituita da indios o da meticci abbia voltato le spalle al presidente in occasione del referendum che avrebbe dovuto garantirgli una sorta di presidenza a vita. C’è di più. Chavez, che finora ha adoperato il petrolio come strumento principe della propria politica di consenso all’interno del Paese ma anche come lubrificante diplomatico in politica estera (basti pensare alle forniture a prezzi simbolici da parte di Caracas che consentono a Cuba la sopravvivenza energetica), sa bene che tagliare le forniture di greggio agli Stati Uniti comporterebbe uno sbilancio nei conti dell’Opec, di cui il Venezuela è membro facoltoso. Ma sa anche – da buon calcolatore – che il margine di guadagno che il greggio venezuelano gli consente e la conseguente politica assistenziale che esso gli garantisce è possibile soltanto con il petrolio al di sopra dei 90 dollari al barile. Sotto questa soglia i ricavi del greggio venezuelano diventano esili. Per questo con teatrale regolarità tuona e minaccia; perché sa che il mercato è molto sensibile ai boatos: dopo l’invettiva di ieri nei confronti di Washington il greggio è risalito immediatamente a 93 dollari al barile al fixing di New York, prima di riassestarsi nel pomeriggio a quote più modeste. Modeste come la popolarità di Chavez, che va declinando di giorno in giorno. Basta misurare il tono delle sue urla per capirlo.
Pagina 1 di 1
Permessi in questa sezione del forum:
Non puoi rispondere agli argomenti in questo forum.